Lo stato di allarme e il rituale della “datocrazia”

Parte 1 del reportage, continua dall’introduzione: Coronavirus: i governi “danno i numeri”… ma i conti non tornano.

Dal 14 marzo, giorno dell’entrata in vigore dello stato di allarme per il Coronavirus, seguiamo da Jerez de La Frontera, in Andalusia, le conferenze stampa e gli interventi dei rappresentanti del governo spagnolo, trasmesse in diretta dalla Radio Televisione Spagnola (RTVE) e anche da reti private.

Tecnici di salute pubblica, ministri, e i massimi vertici delle forze dell’ordine e dell’esercito compaiono ogni giorno schierati 2, 3 o 4 per volta, ognuno davanti al proprio leggio con microfono, in una sorta di palcoscenico – altare da cui svelano quante sono le nuove persone contagiate, guarite e decedute per il Covid-19 in Spagna in base ai dati aggiornati alla sera precedente che dicono di ricevere dalle Comunità Autonome (le Regioni), oltre a presentarci provvedimenti di attuazione della quarantena e misure economiche e sociali. Da un mese e mezzo non solo il governo, ma anche i media e una moltitudine di “esperti” fanno speculazioni su numeri e curve che rappresenterebbero graficamente l’evoluzione della pandemia e della sua cura, mentre in attesa del rituale governativo quotidiano, che a volte si ripete con attori diversi più volte al giorno, siamo privati della libertà di movimento perché ci dicono che solo la “distanza sociale” fermerà il contagio.

In Spagna il confinamento è stato prolungato di volta in volta per 15 giorni in più. Il Presidente del Governo ha annunciato le proposte di estensione nei suoi consueti interventi pubblici del sabato, ottenendo l’approvazione del Congresso il mercoledì successivo. Pedro Sánchez ha dichiarato sabato 2 maggio che mercoledí 6 avrebbe chiesto al Parlamento una ulteriore proroga dello stato di allarme fino al 24 maggio «perché non c’è un piano B» , e nonostante il 28 aprile avesse annunciato un piano di “de-escalation” in fasi, di cui la “zero” è iniziata il 4 di maggio e la ultima dovrebbe finire entro giugno, ma non ci sono certezze, perché le date corrispondono a risultati sperati secondo i criteri governativi. Quel che è certo infatti è che i soliti dati giornalieri su contagi, morti e curati, e nuovi “marcatori” imposti dall’esecutivo alle Comunità Autonome per cambiare di fase, condizioneranno le limitazioni alle libertà fondamentali, potendole via via addolcire o rafforzare, ancora per molto tempo, cioè durante e anche dopo un «percorso controllato verso una “nuova normalità”», secondo le parole inquietanti di Sánchez, una realtà sconosciuta che è il governo a voler decidere per noi. Il presidente del governo il 31 maggio ha comunicato ai presidenti delle comunità e città autonome che il governo chiederà alla Camera dei deputati «un’ultima e definitiva proroga di quindici giorni dello stato di allarme», fino al 21 giugno, che avrà come novità sostanziale che «la massima responsabilità nella gestione della “de-escalation” è trasferita alle comunità autonome che si trovano nella Fase 3». Ma la regolamentazione della mobilità rimarrà nelle mani del governo, che, nel caso in cui i dati peggiorino, potrebbe nuovamente limitare le libertà delle persone.

Fino a quando dureranno dunque le restrizioni a diritti fondamentali dei cittadini, garantiti costituzionalmente e da convenzioni internazionali, e soprattuto con quale obiettivo da un punto di vista sanitario?

Non sappiamo infatti quale sia la relazione diretta delle misure governative con la salute pubblica, in termine di diminuzione dei contagi reali, presenti e futuri, e di cura dei malati. L’esecutivo ha sempre auspicato una «discesa della curva» detto con le parole dell’epidemiologo Fernando Simón, il direttore del Centro di Coordinamento degli Allarmi e Emergenze Sanitarie (Centro de Coordinación de Alertas y Emergencias Sanitarias) del Ministero della Salute, ma come mostreremo in questa analisi e come commenta lui stesso, la “curva” rappresenta solo il campione dei casi “registrati”.

Il nocciolo della questione è che per gestire qualsiasi epidemia e per limitarne la diffusione, i passi da fare sono la diagnosi dei casi reali e la cura delle persone contagiate, isolandolo quelle infette ma non necessariamente tutta la popolazione.

Da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità il 27 gennaio scorso ha dichiarato che ci sarebbe stato un «rischio globale elevato» di una emergenza sanitaria internazionale, il governo spagnolo, come molti altri, non ha controllato le persone in arrivo dagli stati dove si sapeva già che c’erano dei contagiati, né i focolai interni al paese, nonostante avesse sott’occhio ad esempio l’evoluzione del Coronavirus in Italia e avrebbe potuto prevedere che se non fosse intervenuto per tempo la diffusione dell’epidemia sarebbe stata simile a quella italiana, come in effetti è stato.

Invece il governo spagnolo ha preferito aspettare, per la precisione fino a sabato 14 marzo, per confinare tutta la popolazione, probabilmente nel modo più drastico di tutti i governi, quando ormai c’erano già 5753 casi di Coronavirus notificati secondo il Ministero della Salute, di cui 2940 solo a Madrid, e 136 morti. Dando oltretutto l’annuncio del confinamento il venerdì 13, alimentando fino al giorno successivo l’esodo già in corso di una parte della popolazione dalle zone più colpite verso le seconde case o altre sistemazioni in altre parti del paese e dunque aumentando il rischio di contagio.

Il confinamento totale è stato giustificato dal governo spagnolo affermando che questo virus è sconosciuto, pur appartenendo a una famiglia nota, e che ci sarebbe stato bisogno di tempo per individuare gli infetti, capire meglio come curarci e per produrre un vaccino. Ma ad oggi l’esecutivo non ha ancora predisposto un piano di azione massivo per individuare tutte le persone contagiate, o quante più possibili, anche le asintomatiche, e per curare tutte quelle malate, che hanno fatto ricorso spontaneamente al sistema sanitario. Solo a partire da metà aprile il governo ha annunciato l’aumento dei test diagnostici, ma largamente insufficienti per basare sul loro numero la “de-escalalation”, come invece ha dichiarato il presidente, altrimenti a questo ritmo ci vorrebbero anni per metterla in pratica (si veda l’articolo: 6 anni e mezzo di confinamento in Spagna, secondo il presidente del governo Sánchez). La cura è stata lasciata nelle mani dell’intervento straordinario del personale sanitario degli ospedali e dei centri di salute, e purtroppo nonostante ciò molte persone hanno dovuto piangere in silenzio o peggio ancora a distanza la morte di alcuni familiari senza neanche aver potuto partecipare al loro funerale.

I “conti che non tornano” sono proprio i dati che il governo annuncia nel rituale quotidiano di indottrinamento del popolo, il loro utilizzo come unico e inconfutabile argomento a sostegno delle proprie misure, e l’insufficiente numero di test diagnostici o di altro tipo di diagnosi territoriali svolti finora. In Spagna si è aspettato che le persone andassero a cercare soccorso presso gli ospedali in una fase già avanzata della malattia, mettendo più a rischio la propria salute e le unità di terapia intensiva degli ospedali, ma non si sono andate a cercare preventivamente le persone contagiate attraverso l’articolazione territoriale del sistema sanitario del paese, che pur è probabilmente tra i migliori del mondo. Infatti il messaggio ripetuto fino alla nausea nella grande campagna di comunicazione del governo è stato “#quedateencasa”, resta a casa, più che l’invito a chiamare per tempo il proprio centro di salute in caso di sintomi sospetti, o per fare una diagnosi preventiva, visto che ai medici è stata data istruzione di ricevere i propri pazienti o di andarli a visitare solo in casi di estrema urgenza, e senza fornire né agli uni né agli altri adeguati mezzi di protezione.

Il governo e il suo comitato tecnico di esperti si sono continuamente passati la palla riguardo alle responsabilità delle decisioni, prese in base a dati che rappresentano, per loro stessa ammissione, solo una parte dei contagiati, dei curati e dei morti, quelli che si sono manifestati e che il governo ha o non ha registrato secondo i criteri dati alle Comunità Autonome, che sono cambiati più volte, e secondo come queste li hanno applicati nelle rilevazioni e nell’invio dei numeri, generando più volte critiche reciproche tra esecutivo ed alcune regioni, sfasamenti e ricalcoli. 

Mentre ha anestetizzato i residenti in Spagna invitandoli a starsene buoni in casa ad aspettare che il virus passi, con slogan quotidiani come “#estevirusloparamosunidos”, “questo virus lo fermiamo uniti”, l’esecutivo spagnolo nei suoi annunci quotidiani non ha fornito sufficienti aggiornamenti riguardo ai progressi della modalità di cura in corso e  non ha rassicurato le persone con argomenti solidi da un punto di vista sanitario. Il governo ha considerato finora i propri cittadini come un popolo da ammansire e come una base di dati da cui estrarre un campione statistico parziale per elaborare una curva di tendenza, quando solo i medici e gli infermieri impegnati negli ospedali, nei centri di salute o che hanno seguitoa domicilio i pazienti e i loro familiari li hanno trattati come persone protagoniste della prevenzione e della cura e capaci di autoresponsabilizzarsi.

Il comportamento contraddittorio del governo spagnolo è stato evidenziato proprio negli interventi pubblici dei propri rappresentanti e nei dati forniti dal Comitato di Coordinamento delle Allerte e delle Emergenze Sanitarie, e in modo eclatante soprattutto dopo il primo mese dall’inizio dello stato di allarme del 14 marzo: rivediamo in dettaglio questi annunci.

Continua nella parte 2: Se la “datocrazia” ci analizza, analizziamola. Sostienici con una donazione e chiedi di leggerla.

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